[ENG] TEDxTransmedia – An interview to Rhianna Pratchett

[ENG] TEDxTransmedia – An interview to Rhianna Pratchett

1) Videogames sell more than books today. In your opinion, what videogames storytelling could give to books? And what to transmedia storytelling?

I think it’s actually the other way around and what books could give to videogames and it’s actually in the role of the author. In books, the author gets complete control over the story, over the characters, over the storyworld, but the writer in games is right down the other end of the spectrum: they get no control over everything.

So actually, looking at books and understanding the importance, it’s obvious the importance of an author for a book but it’s not as easy to see the importance of an author for a game. And it’s actually treating writers more like authors of books, for videogames as well, which I think will probably help. So it’s actually kind of the other way round – it’s treating games narrative with the seriousness and the respect that book narrative gets.

2) We observe always more frequently the birth of books integrated with the gaming experience. Do you think that is merely a marketing requirement or a need of the video game medium, unable to tell properly a story because of the way it is structured?

I think it’s interesting you talk about the birth of books and the birth of videogames because I worked on a radio documentary about the birth of the novel in England and how when the novel came out there was this old outcry that women were going to be reading novels all day and not getting any housework done and then there was all this fan fiction that came out around the earliest novels and people would write stories of what the characters did next, and they would put pictures on fans, and they would make up gravestones for characters that had died in the books and they would kind of get obsessional about them. And everyone thought that the novel would lead to the rack and ruin of society, which is kind of how videogames get treated. They get treated as a sort of «it’s going to lead to the moral decline of our youth» in the same way that they said that about video nasties, or rock music, or the waltz. So videogames, like novels, have been scapegoated, and we’re still trying to work our way through that, and still trying to tell the wider world that videogames are about more than just violence, and they can be very powerful storytelling vehicles. And I think actually videogames can have their own brand of transmedia, too. I worked on the Overlord games and certainly with Overlord 2, Overlord: Dark Legends (which is on the Wii), and Overlord Minions (which is on the DS), I was working on all of them at the same time and they took place in the same world as the first Overlord game but in different parts. They had a common lore that was the same and you could play in the Minions game you could play as the minions, and then you could play in Overlord 2 and play as a big overlord and then Overlord Wii and play as the son, and you could sort of play different parts of the story at different time periods, which I think was particularly interesting. So, kind of that – the way that games do it themselves – I think can probably help transmedia, and often games can be a great place to start a transmedia project from: build the game and then see if it can work in other media as well. For example I’ve always thought that there are games that could make a great TV series or a movie or something like that. But I think it’s important to have a strong core product at the centre and then build that out, and video games are so good at creating a storyworld – and you can create such a big storyworld in a videogame that I think they’re perfect fodder for transmedia.

Photo by Matteo Piselli, www.ibridodigitale.com

Progettare una storia location-based: primi passi

Progettare una storia <em>location-based</em>: primi passi

Parlando di ARG e di progetti transmediali persistenti e pervasivi (disponibili ovunque e in ogni momento), si deve affrontare anche l’altro lato della medaglia e parlare di storie locationbased, e cioè riferite a un luogo fisico preciso.

Dal momento che mi ritrovo invischiata nella progettazione di una storia parzialmente localizzata, ho voluto riportare qui, in parte sintetizzando e in parte elaborando, l’articolo che Robert Pratten, vero guru del transmediale, ha pubblicato sul suo blog lo scorso 10 luglio e che ci aiuta a definire un approccio pratico alla progettazione di una storia localizzata.

Un approccio transmediale può dare valore aggiunto a una storia location-based, a patto che si analizzino nel dettaglio alcuni dati fondamentali: la tipologia di location-based storytelling, il target di riferimento e alcuni dati demografici.

Problema n° 1 – Il giocatore non vuole uscire di casa.

La prima questione riguarda la tipologia di storia: vogliamo che sia obbligatorio raggiungere il luogo o vogliamo renderlo solo un bonus?

Nel primo caso, dobbiamo considerare senza dubbio un calo della partecipazione: il giocatore può raggiungere questo luogo? Anche fosse, chi glielo lo fa fare di uscire?

Non possiamo obbligare un utente a raggiungere una località a lui lontana e, allo stesso tempo, dobbiamo considerare che anche un utente che vive nel nostro contesto possa non avere voglia (o sentire la necessità) di uscire di casa.

L’alternativa suggerita da Robert Pratten è quella di non obbligare l’utente a uscire, offrendogli con il nostro evento location-based solo un’opportunità in più, quella che lui chiama location-aware story.

This means allowing anyone to access the story online (from the comfort and security of their home or office) and using real-world locations as added-value.

L’esempio – Il giocatore esce di casa e rimane deluso.

WhaiWhai, dell’italiana LOG607, è una collana di libri di successo, ora edita da Marsilio, che offre cacce al tesoro per alcune delle più importanti città storiche d’Italia. Ha di recente ampliato il catalogo, affiancando a Roma, Venezia, Verona, Firenze e Milano, perfino New York.

Tuttavia, nel momento in cui mi sono messa per strada alla ricerca del Ruyi, l’esperienza non è stata del tutto soddisfacente. Mi sono ritrovata di fronte a una chiesa a cercare quale fosse un particolare di una statua o di fronte a Castel Sant’Angelo a contare gli angeli del Ponte Sant’Angelo: non è abbastanza.

Il giocatore che ha compiuto un atto di fede ed è uscito per strada vuole conoscere, vuole sperimentare, mettersi in gioco e osare. Non vuole solo contare le statue o leggere vecchie iscrizioni. La colpa non è tanto di WHAIWHAI, quanto del mezzo e della location: entrambi poco adattabili al cambiamento.

Dobbiamo quindi definire il tipo di esperienza da offrire:

  • Evento locale: Ci sono abbastanza persone disponibili nell’area?
  • Evento per turisti: È il momento migliore per lanciare l’evento? Ci saranno abbastanza visitatori?
  • Esperienza persistente locale: L’esperienza si regge su contenuti solidi, ben dispersi su più luoghi? La gente del posto deve spostarsi per raggiungere la location?
  • Esperienza persistente per turisti: Come potranno sapere dell’esperienza? Avranno il tempo sufficiente (e penseranno di averlo) per prendervi parte?

Location-based stories A

L’esempio – A ognuno il suo.

The Seed, di cui abbiamo già parlato, si fonda proprio sul binomio evento locale/esperienza persistente. La gente del posto ha l’opportunità di prendere parte agli eventi presso i Great Garden of Sussex, dai quali otterrà un’idea più chiara dell’ambientazione e della storia; gli “esterni” saranno invece adeguatamente stimolati e ricompensati dalla trama persistente che si svolge su internet.

L’esempio – Gamification, Foursquare e storytelling

Abbiamo detto che il giocatore non uscirà di casa apposta per voi. Ciò non esclude il fatto che voglia giocare dal momento in cui si trovi già fuori.

Wanderlust è una app per iPhone creata da Six to Start che, tramite Foursquare, associa geolocalizzazione e narrazione, offrendoci una lista di storie da svelare. L’app ci informa di quanti atti è composta la storia e sui luoghi in cui si svolge, gli stessi in cui la nostra presenza sarà richiesta (bar, ristoranti, locali musicali). Interessante la possibilità di creare da sé altre storie da proporre alla redazione.

Problema n° 2 – Il giocatore non legge le regole ma vuole un contentino

Questo è l’unico assunto su cui dovrete basare le vostre progettazioni: nessuno (o quasi) legge le regole. L’esperienza deve risultare intuitiva.
Inoltre, dare ricompense, darle da subito e frequentemente è la vera chiave per affezionare il giocatore.

Problema n° 4 – Chiariti la tipologia e il target, bisogna rimboccarsi le maniche

A questo punto, definiti il tipo di esperienza e il pubblico, si passa a sviluppare la storia.

Il primo passo, il più facile da dimenticare ma anche il più importante da chiarire, è definire gli obiettivi creativi e commerciali.

Location-based stories B

È il momento di rimboccarsi le maniche: dobbiamo iniziare a scrivere la storia vera e propria.
Ricordiamo che, al di là degli strumenti (Foursquare, Facebook, Twitter, etc.), è la storia a sostenere l’intera esperienza, dando non tanto un valore aggiunto all’evento, ma configurandosi come la vera ricchezza dell’evento stesso.

I sette miti da sfatare sul transmediale

Con il diffondersi della pratica e del concetto di transmediale, e complice – almeno in Italia – la mancanza di letteratura scientifica sufficiente, sono diffusi i miti riguardanti il transmedia storytelling.

Henry Jenkins – se non lui, chi? – in un articolo del 2011 sfata sette miti riguardo il transmedia storytelling. Analizziamoli insieme.

Mito n° 1: Il transmedia storytelling si riferisce a ogni strategia che include più di un mezzo di comunicazione

L’adattamento cinematografico di un libro o di un fumetto, il sito di una serie tv, il broadcast online di un canale televisivo non sono necessariamente transmediali. Affinché il racconto sia tale, gli elementi della storia devono essere sistematicamente dispersi su più media: ogni medium apporta il proprio contributo unico all’insieme. Non solo, il medium fa, e deve fare, ciò che sa fare meglio, rivolgendosi al pubblico che gli è pertinente. La scelta non deve essere casuale.

Mito n° 2: Il transmediale è semplicemente un nuovo tipo di strategia promozionale

Effettivamente molti sono stati i progetti transmediali creati a fini promozionali. Questo perché la pratica ben si sposa con il coinvolgimento del pubblico (audience engagement), spesso sfruttando anche gli strumenti di viral marketing (per esempio: Lost). Jenkins però ci tiene a precisare che il miglior transmedia è guidato da un impulso creativo.

Transmedia allows gifted storytellers to expand their canvas and share more of their vision with their most dedicated fans.

Mito n° 3: Transmediale = Gioco

L’identità può essere vera, ma solo in parte. I giochi sono il miglior modo per coinvolgere il pubblico e il transmediale offre un alto grado di coinvolgimento. Un esempio ovvio è costituito dagli A.R.G..

Tuttavia, secondo me, il transmedia storytelling è difficilmente scindibile, se non dal gioco, dalla gamification. È vero: un libro (un testo, sarebbe più corretto dire) può essere transmediale senza sfruttare meccanismi di gioco, ma già il fatto di rendere il lettore parte attiva del processo autorale aggiunge al progetto un forte carattere ludico. Penso agli esperimenti dell’OuLiPo e alla letteratura combinatoria. Nel momento in cui l’utente diventa osservatore/utente/giocatore (Viewer/User/Player è il termine che usa Stephen E. Dienhart), il gioco rimane, seppur subdolamente e implicitamente, parte del progetto.

Inoltre, è importante mantenere una differenza, seppur sottile, tra prosumer e Viewer/User/Player.

Mito n° 4: Il transmediale è per geek.

È vero che molti progetti transmediali sono nati con un occhio di riguardo per l’infanzia, per non parlare del pubblico appassionato di sci-fi, horror e fantasy (essenzialmente parliamo di nativi digitali). Tuttavia mai come ora si assiste, e si assisterà, a una forte universalizzazione della pratica transmediale. Il transmedia storytelling è uno strumento non più relegato a una specifica élite, ma pronto a essere impugnato da chiunque abbia voglia di cimentarsi nell’impresa.

Il transmediale può essere, inoltre, un modo per recuperare o per non far morire alcuni format tradizionali. Jenkins cita l’esempio delle soap opera.

Mito n° 5: Il transmediale richiede un budget elevato

È facile aspettarsi enormi progetti transmediali da film di successo e grandi serie tv, ma molti successi si sono basati su un budget basso e produzioni indipendenti (Jenkins citaThe Blair Witch Project, District 9Paranormal Activity). La chiave è riuscire a miscelare correttamente i media di riferimento in base a genere, pubblico e budget.

Mito n° 6: Tutto dovrebbe essere reso transmediale

Come già detto, un buon racconto transmediale utilizza media differenti, sfruttando per ognuno il pubblico e la resa migliori. Molte storie si sviluppano al meglio su un singolo medium e per loro non è necessario, anzi è sconsigliato, un progetto transmediale.

Il transmedia storytelling si presta meglio con una storia dal mondo ampio e frammentato, dal forte background o dai personaggi con differenti archi narrativi. È una opportunità creativa, dice Jenkins, non un obbligo.

In sintesi: qualsiasi medium, che sia associato ad altri o da solo, deve fare ciò che sa fare meglio, sfruttando le caratteristiche che gli sono proprie.

Mito n° 7: Il transmediale è roba passata

Jenkins considera la strategia transmediale come uno strumento che amplifica le doti di una storia, senza però essere un’ancora di salvezza per una narrazione di scarsa qualità, e che premia chi riesca a prevedere quali media possono adattarsi alla storia e fornire contenuti che servano ad espandere il contesto della narrazione nel miglior modo possibile.

Sottolinea che il transmediale in quanto tale non possa avere una applicazione definita: si definisce come uno strumento liquido, che si adatta ai nuovi scenari mediatici e alle esigenze di un pubblico sempre diverso.

[…] we will see innovative new approaches because transmedia as a strategy responds to a media environment that rewards being everywhere your audience might be and giving your fans a chance to drill deeper into the stories they love.

Il transmedia storytelling non è nemmeno innovativo: per quanto la sua formalizzazione sia recente, l’uomo ha da sempre narrato in modalità differenti e sfruttando i mezzi a sua disposizione, anche contemporaneamente quando necessario. Il format attuale è sicuramente recente, ma in quanto tale anche propenso a un continuo sviluppo

Transmediale: si mangia?

Transmediale: si mangia?

Dovendo spiegare a un professore cosa sia il transmediale, nel tentativo di convincerlo a intraprendere questa tesi, ho pensato di affiancare un paio di definizioni scritte da studiosi ben più competenti di me per dare un’idea più chiara possibile di cosa andare a esporre al ricevimento.

Questi appunti sono principalmente per me, tuttavia qualcun altro potrebbe trarne giovamento, quindi eccoli pubblicati.

Trans-mediale. Viene in mente qualcosa che sia presente trasversalmente su più media. Ma in cosa differisce dal cross-mediale?

La pratica transmediale è un processo che coinvolge contemporaneamente più media. Si può intendere un romanzo (come nel caso del recentissimo Il messaggio segreto delle stelle cadenti di Max Giovagnoli), si può intendere come esperienza di viral marketing (la campagna pubblicitaria di Lost), si può intendere un film (Matrix e tutto l’universo al film correlato) e così via.

Christy Dena, punto di riferimento nel campo del cross-mediale e del transmediale, definisce così la transmedia practice nell’introduzione della sua tesi di dottorato:

The theory of transmedia practice examines a creative practice that involves the employment of multiple distinct media and environments for expression.
[Christy Dena, Transmedia Practice: Theorising the Practice of Expressing a Fictional World across Distinct Media and Environments]

Henry Jenkins ci dice che il transmedia storytelling

represents a process where integral elements of a fiction get dispersed systematically across multiple delivery channels for the purpose of creating a unified and coordinated entertainment experience. Ideally, each medium makes it own unique contribution to the unfolding of the story. So, for example, in The Matrix franchise, key bits of information are conveyed through three live action films, a series of animated shorts, two collections of comic book stories, and several video games. There is no one single source or ur-text where one can turn to gain all of the information needed to comprehend the Matrix universe.
[Henry Jenkins, Transmedia Storytelling 101, http://www.henryjenkins.org/]

Il primo film di Matrix (1999) deve essere considerato il testo base dal quale si è dipanato tutto il resto. I fumetti o i videogiochi avrebbero avuto ben minore successo, oltre che motivo d’essere, senza il film e quindi, in un certo senso, Matrix è la fonte madre. Non l’unica, ma quella più importante.

E la differenza tra cross-mediale/transmediale? Nicoletta Iacobaccitransmedia expert ed evangelist, nonché curatrice del TEDx Transmedia, spiega:

In transmedia storytelling, content becomes invasive and permeates fully the audience’s lifestyleStephen Erin Dinehart, who coined the term transmedia and created the VUP (viewer/user/player) relates this model to Richard Wagner and his concept of “total artwork” (“Gesamtkunstwerk“) where the spectator becomes actor/player. A transmedia project develops storytelling across multiple forms of media in order to have different “entry points” in the story; entry-points with a unique and independent lifespan but with a definite role in the big narrative scheme.

[Nicoletta Iacobacci, From crossmedia to transmedia: thoughts on the future of entertainment, http://www.lunchoverip.com/2008/05/from-crossmedia.html]

Il transmediale è un puzzle: ogni pezzo concorre alla narrazione. Non si tratta solo di una trasposizione mediale o di una traduzione intersemiotica, ma di un racconto che utilizza media diversi. Per esempio: in Lost possiamo usufruire anche solamente del testo base, il telefilm. Quanto però è più efficace l’intera esperienza transmediale che, al di là delle stagioni in tv, sfrutta internet (il sito della Oceanic Airlines, i video della Dharma e la sequenza di Fibonacci, etc) e il viral marketing per creare un intero universo di suggestioni e misteri?

Tuttavia la narrazione transmediale non è solo una frammentazione del racconto. C’è un motivo per cui la sequenza della narrazione viene affidata a media diversi. Ogni sequenza ha un obiettivo preciso e si offre a un target preciso: ogni medium fa ciò che sa fare meglio.

Un altro aspetto importante da considerare è il ruolo di pervasività della narrazione, specialmente quando questa avviene su internet (iper-medium privilegiato per il transmedia storytelling).
Il caso del recente telefilm targato BBC, Sherlock (2010), è un buon esempio. Nel telefilm si seguono le vicende, ri-narrate in chiave contemporanea, di Sherlock Holmes e John Watson. Come prevedibile, nel 2010 Sherlock ha un sito (che non ha molto successo) e Watson un blog, dove riporta i casi e dove i personaggi della serie commentano. Il passaggio dalla fiction alla realtà dello spettatore è immediato.

Per ora mi fermo qui. Devo ancora riformulare gli appunti del TEDx Transmedia e tanta carne è sul fuoco. Ce la farò, giovedì prossimo, a condensare tutto in poche frasi concise?